Tra le sbarre di Marassi – Repressione e violenza strutturale dello stato

Il caso di un giovane detenuto di 18 anni torturato per due giorni (tra l’1 e il 3 giugno) nel carcere di Marassi solleva questioni cruciali sulla natura delle istituzioni penitenziarie e sui meccanismi di potere che le sorreggono. Dal punto di vista anarchico, questa vicenda rappresenta l’ennesimo esempio emblematico delle profonde contraddizioni e delle ingiustizie insite in un sistema che si fonda sulla repressione, sulla soppressione della libertà, sulla normalizzazione della violenza statale e sulla cultura di sopraffazione al suo interno.

La Liguria, con le sue strutture di potere carcerarie, si piazza settima nella lista vergognosa della classifica delle carceri in Italia per sovraffollamento e numeri di suicidi. Il carcere di Marassi, con circa 700 detenuti su 500 “posti” disponibili, ha circa il 134% di sovraffollamento e pare che fossero in quattro in quella maledetta cella con il giovane abusato che era già stato spostato di cella diverse volte per “problemi relazionali”. Cinque è una bella folla di persone che lo Stato fascista di turno riesce a ficcare dentro una piccola stanza fatiscente e vecchia del carcere di Marassi, una struttura del 1800. E pare che siano stati proprio i quattro aggressori a chiamare le guardie, preoccupati per lo stato di salute del ragazzo che avevano violentato per due giorni. I secondini non hanno visto né sentito nulla per due giorni? Chissà… Ma il carcere di Marassi non è nuovo alle violenza tra detenuti: nel 2021 Emanuele Polizzi fu trovato morto con segni sul corpo che non erano imputabili al suicidio e due compagni di cella furono indagati.

Ma del resto se l’intero sistema carcerario si basa su manganelli, pistole, paure, soprusi, sbarre, segregazioni, punizioni, ingiustizie, ostilità e competizione… cosa ci si aspetta? Eppure, nonostante questo, le proteste dentro al carcere di Marassi esplose il 4 giugno per supporto al giovane violentato indicano ancora che l’empatia, il mutuo aiuto e la resistenza vivono dentro l’animo delle persone, anche quelle condannate a vivere da dentro la violenza, le ingiustizie e gli abusi degli Stati.

Queste proteste sono davvero importanti perché poi il “solo” costo sostenuto dagli Stati per i soprusi attuati è quello di essere “condannati” da una di quelle istituzioni che fa da parvenza simil-democratica a questo sistema dispotico in cui viviamo, la Corte europea dei diritti dell’uomo. Questa, infatti, ha condannato ripetute volte l’Italia per il trattamento dei detenuti nelle carceri, evidenziando violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, rilevando condizioni di sovraffollamento e di mancanza di cure adeguate per i detenuti, soprattutto quelli con problemi psichiatrici. Certo, nelle carceri si consumano stragi di Stato: tante le persone suicidate, 91 nel 2024 e 33 fino a maggio 2025. Nel periodo 2021-2024 – si legge nel dossier del Garante nazionale delle persone private della libertà (Gnpl) – in carcere si sono verificati 294 suicidi con una media di circa 73,5 suicidi all’anno. In carcere, del resto, il tasso di suicidi è di ben 25 volte più alto rispetto al resto della popolazione “libera”.

Per l’ideologia anarchica, il carcere non è mai stato una soluzione efficace o giusta ai problemi sociali, bensì un meccanismo di oppressione che serve a mantenere lo status quo di potere delle classi dominanti. La detenzione di individui, spesso per reati che evidenziano disuguaglianze sociali e oppressioni strutturali, si traduce in un sistema che criminalizza la povertà, l’emarginazione e le diversità.

Nel caso di Marassi, il fatto che un giovane di 18 anni venga seviziato e torturato senza che agenti o altri detenuti abbiano apparentemente nulla da fare o da dire, evidenzia come il sistema penitenziario sia incapace e/o disinteressato nel garantire la sicurezza e i diritti fondamentali dei detenuti. La mancata osservazione o, peggio, la complicità implicita di figure di autorità, suggeriscono che la violenza sia parte integrante di questa istituzione, alimentata e protetta da strutture di potere che si autogiustificano attraverso norme e pratiche oppressive.

L’indagine della procura di Genova mette in luce come le omissioni degli agenti e dei vertici della polizia penitenziaria possano essere considerate non solo un caso di negligenza, ma anche una manifestazione di una cultura dell’impunità radicata nelle istituzioni statali. Questa cultura si basa sulla concezione che le autorità siano sopra le leggi e che possano agire senza conseguenze, soprattutto quando si tratta di mantenere l’ordine e il controllo.

L’apparente innocenza di fronte alle violenze in cella rivela come il sistema penitenziario sia strutturato per preservare i propri interessi, spesso a discapito della vita e della dignità dei detenuti. La tutela dei diritti umani diventa un’eccezione piuttosto che la regola, e la responsabilità viene spesso nascosta dietro un velo di silenzio e omertà istituzionale.

Dal punto di vista anarchico, la violenza in carcere non è un’eccezione, bensì una componente intrinseca delle pratiche di repressione statale. Le torture, i pestaggi, le vessazioni sono strumenti di disciplina che rafforzano la gerarchia e la sudditanza tra detenuti, ma anche tra detenuti e agenti. La violenza diventa così un mezzo di controllo e di mantenimento del potere, giustificato dalla logica della “legge” e “dell’ordine pubblico”. Il caso di Marassi conferma questa tesi: un ragazzo di 18 anni, vulnerabile e incapace di difendersi, viene brutalmente seviziato senza che nessuno intervenga. Questo episodio mostra come le istituzioni si assumano il ruolo di agenti di oppressione, alimentando un ciclo di violenza che si perpetua senza sosta. La responsabilità non si limita alle singole figure di agenti o vertici, ma si estende all’intero sistema repressivo e alle sue logiche. La presenza di omissioni e di collusione tra le varie componenti del sistema penitenziario rivela come questa struttura sia un prodotto di un ordine sociale fondato sulla rivalità, sul controllo e sulla dominazione.

Il caso di Marassi è un esempio di come le istituzioni, anziché tutelare i diritti umani, contribuiscano a perpetuare un ciclo di violenza e oppressione. La risposta a questa situazione non può essere affidata alle autorità o a riforme parziali, ma richiede uno smantellamento radicale di tutte le strutture di potere che sostengono il sistema penitenziario. Non ci limitiamo a denunciare le ingiustizie, la nostra proposta è quella di un rinnovamento radicale delle modalità di gestione della società e delle relazioni sociali. La lotta per l’abolizione del carcere, e più in generale per la fine della repressione statale, si basa sulla convinzione che la libertà individuale e collettiva possa essere raggiunta solo attraverso l’autogestione, l’uguaglianza e la solidarietà. In questa prospettiva, le pratiche di sorveglianza e controllo devono essere sostituite da forme di organizzazione sociale basate sulla mutualità, sul rispetto reciproco e sulla solidarietà, eliminando le strutture di potere che alimentano la violenza e l’oppressione.

Il caso di Marassi rappresenta un monito contro la normalizzazione della violenza e contro le logiche di oppressione che caratterizzano il sistema penitenziario. È fondamentale denunciare queste ingiustizie, promuovere l’autonomia e l’autogestione delle comunità e lavorare per creare un mondo senza catene né barriere, dove la libertà e la dignità siano diritti di tutti, non privilegi di pochi. Solo attraverso una critica radicale delle istituzioni e un impegno collettivo per il cambiamento sociale possiamo sperare di costruire una società più giusta, libera e solidale.

Sia chiaro, qui non si tratta di chiedere l’abolizione del diritto penale, e neanche di quello amministrativo che mette i migranti in carcere e ha pesantemente represso molti movimenti importanti, come il NoMuos. Qui non si parla di riforme o referendum. Noi scriviamo per portare le persone ad una coscienza critica di sé stesse, del loro ambiente, e dei sistemi di potere che ci circondano; noi scriviamo col dolore e la rabbia di chi ha deciso di guardare dritto l’oppressione negli occhi, noi scriviamo per condividere discussioni e azioni alternative alle autorità in tutte le sue forme. Noi scriviamo per portare le persone a farsi domande e diventare scettiche verso tutte le autorità, anche quelle che possono sembrare benevole. Non saranno le riforme dentro gli Stati a ridurre le oppressioni che viviamo tutti i giorni sui nostri corpi e sulle nostre vite. Sarà il risveglio delle coscienze di chi ad un certo punto anche improvvisamente deciderà di dire basta, di non cedere più la propria responsabilità e la propria vita al partito politico di turno. Quando questi BASTA diventeranno non solo un grido, ma un sentimento chiaro e condiviso da migliaia, queste poi diventeranno milioni e mentre gli Stati proveranno in tutti i modi a usare le ultime armi di repressione di massa a loro disposizione, il superamento anche degli Stati avverrà da sé nelle forme che le persone riterranno più opportune. Sappiamo con certezza storica che più le restrizioni si fanno dure più la pressione porterà all’implosione del sistema, ma a questo giro di giostra spereremo in un sistema che non ripeta sé stesso con altre forme simil-statali e opprimenti.

Gabriele Cammarata

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